Sei in > formaggio.it > Michele Grassi > L’altra faccia del formaggio, dove non ci sta scritto il nome
In questi giorni, forse perché sta iniziando la stagione dell’alpeggio, si parla molto del Bitto storico e delle sue vicissitudini che riguardano soprattutto gli scontri tra i suoi sostenitori e il consorzio di tutela dell’attuale DOP.
Da molti anni seguo la diatriba che riscalda le anime in Valtellina, per il dovuto riconoscimento di un formaggio che ancora oggi è la massima espressione del lavoro dell’uomo al pascolo.
Proprio così, il formaggio che viene fatto in alta Val Gerola, sugli alpeggi più elevati che si possono visitare nel nostro Paese, non riesce ad ottenere il dovuto riconoscimento di origine neppure con il cugino, o fratello, Bitto DOP, il cui disciplinare sta troppo largo al più antico e tradizionale formaggio definito appunto Bitto storico.
Ma di tutta quest’infinita discussione forse ci si è dimenticati di un fattore importante che ritengo interessante valutare.
Inutile soffermarsi su ciò che è avvenuto e avviene in Valtellina proprio perché è materia più che conosciuta, e proprio per questo vorrei fare una considerazione che difficilmente troverà riscontro perché va al di la di ogni intrigante concetto di riconoscimento del nome del formaggio tanto amato.
La storia del Bitto è affascinante e, come anche oggi accade, lo Storico viene fatto ancora come lo si faceva tanti secoli fa, con il sudore dell’uomo che vive la sua giornata, e la stagione dell’alpeggio è piuttosto lunga, a faticare sui monti e a produrre una specialità unica nel suo genere, anche perché non sono utilizzati additivi di alcun genere.
Di consideri anche che tra gli operatori del Bitto Storico e quelli dell’attuale DOP, sono avvenuti incontri, scontri, scintille che purtroppo non hanno portato a nulla e che hanno sempre lasciato, ai convenuti, l’amaro in bocca mentre amaro il formaggio non deve proprio esserlo.
Chi ci rimette in tutta questa questione è proprio il formaggio.
Proviamo a pensare che se i due formaggi della Valtellina potessero intendersi fra loro, una soluzione la troverebbero.
Ovviamente ciò non è possibile ma allora perché non pensare al formaggio per la sua reale natura, ovvero a quel prodotto che appassiona la gente che lo consuma?
Oggi che si conosce piuttosto bene la microbiologia applicata alla trasformazione del latte, che si conoscono tecniche di produzione e soprattutto le caratteristiche del latte, il formaggio derivante da metodi tradizionali ha un grande valore aggiunto.
Naturalmente la tradizione non deve escludere il fattore igienico sanitario, il monitoraggio del latte e della pasta caseosa eccetera, fattori che se vogliamo possiamo definire moderni, ma dei quali non si può farne a meno e che comunque fanno parte della storia. Non è certo il caso de Bitto storico ma è inevitabile che il concetto possa riguardare ogni formaggio che viene fatto in caseificio o sulla montagna.
In un recente post di FB ho letto che il Bitto, quello storico, dovrà purtroppo cambiare nome. Sicuramente gli addetti ai lavori in alta Val Gerola non condivideranno e si rifiuteranno di attenersi a tale questione, che vede i documenti già nel 1500 dichiarare il “formaggio della valle del Bitto”.
Già, sarà una sconfitta per l’uomo che ha, da molti anni, intentato cause ad ogni livello per una denominazione che ritiene sua di diritto, forse dimenticando che non è l’uomo l’oggetto del diritto ma il formaggio.
Ora mi metto nei panni del consumatore, di colui che osserva, e che mangia il formaggio e che per la questione Bitto si pone domande come, che importanza può avere, al di la della motivazioni storiche e affettive, che sono certamente importanti, un nome di fronte alle qualità organolettiche di un formaggio eccellente?
È proprio così importante continuare una discussione, anzi un litigio, che non ha portato a nulla e difficilmente porterà a risolvere il caso? Perché allora non denominare il più bell’esempio di tradizione d’alpeggio in modo diverso che non il nome del torrente che scenda ripido dalle alpi Orobiche?
Il Bitto storico è noto in tutto il mondo, mi auguro non per il nome ma per le sue caratteristiche che lo collocano in una nicchia molto importante della tradizione italiana.
Un nome quindi, una tipologia diversa da quella della DOP, un mancato riconoscimento nel disciplinare della DOP stessa, stiamo davvero parlando di un formaggio che non vuole essere riconosciuto? Ma il Consorzio di tutela, proprio non ci sente?
E allora riconosciamolo in modo diverso questo formaggio della storia, registriamolo con altra denominazione, non è il calice che fa buono il vino e l’uomo non ne uscirà perdente ma fautore di un lascito che sarà storia, per i posteri, fatta anche di piccoli o grandi cambiamenti. Non è cambiando nome che si denatura una tecnica tradizionale.
Il lavoro encomiabile degli uomini che si ammazzano di fatica con il sole, la pioggia, la neve, il vento e tante lattifere a quote pazzesche deve proprio essere messo a repentaglio per un litigio infinito?
Vedete quante domande sono al vaglio del comune consumatore che non capisce perché uno dei più straordinari esempi di cultura alpina-casearia esistenti nel mondo debba essere infangato da trattati mai trattati e da soluzioni mai avvenute.
Bitto o non Bitto, nome o non nome, l’importante è che questo formaggio non venga ricordato per le azioni legali ma per la storia della sua tecnica di produzione, per le montagne su cui viene fatto, per la sua incredibile longevità, per le sue eccellenti proprietà organolettiche.

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