Sardegna, una crisi che dura da troppi anni
Gran parte del mondo lattiero-caseario vive in stato di emergenza continuo, o meglio ciclico
Di Erika Sois
La crisi del prezzo del latte (correlata al prezzo del Pecorino Romano) è attiva da circa una ventina d’anni e ha un andamento ciclico, pertanto ogni 3-4 anni il prezzo della materia prima scende pesantemente sotto i costi di produzione (in corrispondenza ad un prezzo del Romano che scende sotto i 5,00/5,50 euro al kg all’ingrosso).
I momenti di crisi vedono forti manifestazioni di dissenso e di richiesta di sostegno da parte del mondo politico, istituzionale; gli interventi ci sono sempre stati ma a vantaggio del presente, dell’immediato, mentre non si è riusciti ad apportare al sistema quelle modifiche di tipo strutturale che potrebbero eliminare questo cattivo funzionamento. Non è che non vi siano state proposte adeguate, anzi, pensiamo ai vari punti che hanno composto e compongono la piattaforma del Movimento Pastori Sardi (MPS), ad una Legge Regionale (n.15 del 2010) che parla di diversificazione produttiva, di realizzazione di centrali raccolta latte allo scopo di attribuire ai produttori (i pastori) un maggiore controllo sulla materia prima quindi una maggiore capacità contrattuale, un piano produttivo della principale DOP (il Pecorino Romano, appunto), un Osservatorio della filiera ovi-caprina al fine di raccogliere i dati sulla produzione quindi riuscire a monitorare il settore ecc.
È stato studiato tanto, è stato scritto tanto, eppure siamo sempre in crisi, secondo alcune analisi che riporto.
Mancano i dati certi e trasparenti sulla filiera (non si conosce con precisione il numero di litri di latte prodotti, dati incompleti sulle tonnellate di formaggi; senza dati certi non è possibile programmare efficacemente. Si parla di diversificazione guardando esclusivamente alla tipologia casearia ma non si guarda al target di mercato, alla fascia di collocazione dei prodotti, che permane nella generalità dei casi sempre medio-bassa, ed il Pecorino Romano continua a rappresentare circa il 60% della produzione casearia isolana.
Il prezzo del latte è sempre concepito come “unico”, il latte non i latti, eppure da più parti si decantano le eccellenti caratteristiche della materia prima (da pascolo brado ecc.), poi appiattite nel processo di produzione casearia (pastorizzazione o termizzazione, fermenti alloctoni, celle ecc.).
Inoltre il prezzo del latte, in maniera illogica e contro le stesse regole economiche, viene fatto dipendere dal prezzo del prodotto finale (per regola sono i fattori di produzione a determinare il prezzo del prodotto finito e non il contrario!). E ancora, il prezzo del latte viene ancorato al prezzo di un unico prodotto (Pecorino Romano), come se il 100% del latte delle nostre greggi andasse al 100% a produrre Romano, non è così in quanto le stime ci dicono che circa il 60% è rappresentato da Romano DOP, un 30% da Pecorino Sardo DOP e Fiore Sardo DOP, un 10% da “altri formaggi”; si è proposto l’ancoraggio del prezzo del latte ad una media ponderata dei prezzi di tutti i prodotti appena elencati, ed invece il 9 marzo scorso a Sassari -al tavolo tecnico in Prefettura- hanno approvato una griglia che applica un sistema di correlazione basato sull’andamento del prezzo del solo Pecorino Romano. Eppure ci sono trasformatori che di Romano non ne fanno o ne fanno pochissimo, dato che producono tipologie meglio remunerate, e nonostante ciò -si badi bene- pagano il latte ai pastori come se quel latte andasse al Romano, perché questa assurdità? Perché i trasformatori, TUTTI, concordano su questo punto? Di fatto è sembrerebbe un cartello, e sarebbe illegale!
Il ruolo dei Consorzi di tutela, contesti nebulosi, poco trasparenti, dentro i quali tutto si fa tranne che tutelare i prodotti e “tutti” i produttori (il caso del Fiore Sardo DOP è emblematico, accostabile tranquillamente alla questione “Bitto storico-ribelle”, dove i grossi produttori industriali hanno la meglio determinando anche modifiche sostanziali sul prodotto, infatti è in corso la ricerca di marcatori del latte crudo, perché il sospetto -basta assaggiare uno di quei Fiore- è che il latte venga sottoposto a trattamento termico, contrariamente alla tradizione che vuole un prodotto a latte crudo). A febbraio, nel pieno della bufera, il Presidente del Consorzio del Pecorino Romano si è dimesso (di fatto il mandato era in scadenza), ed è di giorni fa la notizia della sua rielezione, che esempio è mai questo? Che segnale è mai questo?
Di Pecorino Romano se ne produce più di quanto ne assorba il mercato, eppure i quantitativi dovrebbero essere noti, contingentati; ciclicamente una delle soluzioni è “il ritiro del Romano in favore degli indigenti”, in altri termini vagonate di milioni di euro pubblici che puntualmente servono per “salvare” il prodotto ed i suoi “venditori”, già, va messo bene il luce questo passaggio e cioè il mercato del Romano è in mano a pochissimi soggetti, quindi chiunque produca questo formaggio deve rivolgersi a quei pochi intermediari che controllano il mercato americano (così accade che la Cooperativa X, per dire, cede il suo Pecorino Romano agli industriali che poi ne gestiscono l’esportazione).
Il ruolo della GDO, chiamata in causa dai trasformatori, schiacciati da politiche commerciali sempre più rapaci e spregiudicate (vedasi aste al buio ecc.), illegale anche questo. Dalle stime si evince che rispetto agli ultimi 25 anni, oggi, guardando alla catena del valore i 2/3 sono assorbiti da chi si occupa della commercializzazione, ed 1/3 è suddiviso tra produttori e trasformatori a vantaggio dei secondi. Pensando al “cartello dei trasformatori”, alle aste al buio della GDO, mi verrebbe da dire: ma i giudici dove stanno? Perché non vi è alcun intervento da parte del sistema giudiziario? Un qualche richiamo di Bruxelles?
Come posso concludere? Che questo è il sistema, con più ombre che luci, con all’interno la lobby dei trasformatori che è in grado di fare maggiore pressione sul primo anello (i pastori), poi quella della GDO che prevale sul secondo anello. È il capitalismo signori, un sistema improntato sullo sfruttamento della base a vantaggio di pochi, al fine di produrre sempre più a costi sempre più bassi e vendere a prezzi sempre più contenuti. E di costi sull’ambiente, la salute, quelli sociali-culturali? Questi chi li paga? Il consumismo ci porta a questo. Stando nel sistema non cambierà nulla, staremo eternamente in lotta, una volta su ed una volta giù pesantemente. Quindi la risposta è che la crisi la si combatte mettendo in piedi un sistema alternativo, che prima di tutto ragioni in termini di “filiera”, che guardi a nuovi formaggi (incentrati sul concetto di qualità nutrizionale, organolettica), caratterizzati da elementi di specificità (i territori con i pascoli ad esempio e le culture che li hanno prodotti), dove i latti assumono prezzi diversi in base alle caratteristiche intrinseche rapportate al prodotto finito che ne deriva (per parafrasare, è come se oggi usassimo uve da Barolo per farci il Tavernello!!); anche il Pecorino Romano e le altre DOP dovrebbero subire un processo di diversificazione interna (come ad esempio ci insegna il Parmigiano Reggiano), nello specifico al Fiore Sardo andrebbe restituita la sua dignità originaria (oggi è un prodotto industrializzato e presenta caratteristiche ben lontane dal prodotto tradizionale) ecc. Ma per fare questo occorre un cambio di mentalità, occorre crederci! E, purtroppo, in troppi non ci credono, hanno una cultura industrialista e considerano questo approccio come una visione buccolica… Senza vedere la propria cecità, dato che basterebbe osservare la storia di grandi prodotti caseari, prendere un poco di lezioni dal mondo del vino per capire che si sta procedendo lungo una via fortemente iniqua.
Per quanto riguarda l’ipotesi di trasformare il latte in azienda occorre avere competenze adeguate, questo tema è stato affrontato anche a livello antropologico. Ormai molti allevatori si sono specializzati nella produzione di latte, sono dei meri produttori di latte, hanno perso una parte di quel complesso patrimonio di cultura materiale che apparteneva ad 1-2 generazioni fa. Intendiamoci bene, qui non si sta parlando di “far quagliare del latte”, bensì di produrre formaggi qualitativamente importanti, per questo occorrono competenze sulla materia prima, sulla trasformazione, nell’affinamento. A questo va aggiunto il fatto che il formaggio va venduto, e qui rientrano tutte quelle necessarie competenze sulla comunicazione, la vendita ecc. Conoscenza, anche tecnica, saper fare, apertura mentale, spirito imprenditoriale e grande senso di responsabilità. Non è solo una questione di competenze ma anche di gestione del tempo, un allevatore da solo non potrebbe accudire il gregge- trasformare il latte- curare il formaggio- promuoverlo in maniera diretta attraverso i vari canali- venderlo, necessita per forza di collaboratori e, stando agli elevati costi del lavoro, questi è più probabile che siano interni alla famiglia dell’imprenditore stesso. Quanto ho detto esiste, è realtà per molte aziende che conosco e che sono un grande esempio: aziende multifunzionali, organizzate anche su base familiare, dove le competenze ed i ruoli dei diversi componenti (anche di generazioni diverse) si sommano. Aziende in grado di cooperare, spesso legate ad altre in maniera informale. A tutto ciò aggiungiamo anche la capacità di attrarre finanziamenti, cosa non certo trascurabile. Trasformare da se il latte in azienda è una via difficile ma non impossibile, comunque non per tutti, perché occorre una certa visione delle cose.
Ecco perché, nel rispetto delle differenze (e capacità) ritengo necessaria la coesistenza tra due mondi, quello della grande produzione (però improntata su un discorso equo di filiera) e quello della piccola produzione aziendale (singola azienda o aziende cooperanti), che punta all’eccellenza massima. Il mondo è grande, nonostante il grado di importanza che rivestiamo a livello nazionale ed europeo (in termini di produzione di latte ovi-caprino e di prodotto trasformato) siamo pur sempre un puntino nel globo, e se da un lato non potremo competere sul piano della quantità (penso alle crescenti massicce produzioni di paesi anche lontani), credo che lo potremo certamente fare sul piano della qualità e della specificità delle nostre produzioni.
Per dovere di chiarezza va precisato che i trasformatori non sono tutti uguali, esistono i grossi industriali e quelli meno grossi, esistono le cooperative. Ciascuno ha un proprio obiettivo, è chiaro che l’industriale privato avrà interesse ad agire in una maniera mentre la cooperativa dovrebbe avere tutt’altro scopo. Detto ciò, ciascuno deve essere richiamato alle proprie responsabilità, serve l’instaurazione di un sistema trasparente, ad oggi non è così. Quanto alla consapevolezza da parte del singolo allevatore, di come dovrebbero o potrebbero andare le cose, sono molto rattristata, delusa. Dal mio punto di vista, nel momento in cui il mondo pastorale chiede in massa un innalzamento del prezzo minimo del latte significa che non si sta uscendo dalla logica del prezzo unico, dunque non si sta mettendo in discussione il sistema (che vuole il latte come una commodity). Che spazio ha avuto nelle recenti contrattazioni il tema della qualità, così come ho accennato prima? Nessuno. Ciò significa che non si concepisce una organizzazione alternativa del sistema. Chiedere un prezzo minimo, che giustamente debba essere ben al di sopra dei costi di produzione, senza domandarsi come quel latte verrà poi utilizzato è deleterio. Gli scorsi giorni ho letto tra i tanti un post sui social dove un allevatore alla fine scrive “ma del resto noi produciamo latte non formaggio”. Ecco, questa de-responsabilizzazione (che fa a pugni con il discorso di filiera), questa limitata visione delle cose non porterà nulla di buono, perché l’allevatore deve aver ben presente che il suo latte a poco vale se finisce a produrre formaggi di media-bassa gamma, mentre varrebbe molto ma molto di più se si facesse una politica produttiva di differenziazione della materia prima poi destinandola a prodotti di alta gamma.