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L’alpeggio sull’Altopiano di Asiago è in sviluppo, altrove no. Poche le vie d’accesso. Quella principale resta il cambio generazionale

Applausi a scena aperta. Venerdì sera, al termine della proiezione, in anteprima nazionale, del documentario “Capindo la late. Transumanza di persone e bestie attraverso il tempo sull’Altopiano di Asiago 7 Comuni”, la platea che aveva riempito il Teatro Millepini di Asiago (Vicenza), ha commentato eloquentemente: applaudendo. Una platea eterogenea, composta di indigeni e turisti settembrini, di malghesi e di giovani.
Tutti a condividere una piccola opera d’arte (menzione al merito agli autori Andrea Colbacchini e Giuliano Cremasco e alla supervisione scientifica di Elisabetta Novello) che adesso ci auguriamo possa infilare i canali distributivi giusti per essere vista il più possibile. Lo merita.

Mai prima d’ora avevamo visto così fedelmente rappresentata la vita d’alpeggio, fors’anche perché in questa occasione sono gli stessi malghesi a raccontarsi. Storie di uomini-donne e animali quasi fuse in simbiosi. L’unico rischio che corre un film così è che la bellezza e l’emotività che si porta dentro diano la stura alla suggestione, al facile entusiasmo. Sul filo del ragionamento esaltativo che la vita in malga è liberta, natura e via discorrendo, la massa giovanile oggi in cerca di opportunità lavorative potrebbe equivocare.
Bisogna quindi fare due distinguo per tenere i piedi ben piantati per terra. Per aiutare questo film a volare, non a far volare.

In fatto di alpeggi, l’Altopiano di Asiago è una sorta di mosca bianca.
Avendone oltre 100 è, per estensione dei pascoli e per numero, il più importante sistema di malghe dell’intero arco alpino, capace di dare lavoro a migliaia di persone impiegate nella produzione del formaggio e nel suo indotto di ristorazione e turismo montano.
Tanto per capirci: sull’altopiano vicentino 40 alpeggi trasformano latte, vengono lavorati 230 mila quintali di latte, vengono prodotte 20 mila forme di formaggio. Che alimentano un’economia valutata in circa un milione e mezzo di euro. Dimensioni e numeri imponenti, che però stridono con la stragrande maggioranza degli altri alpeggi in giro per le nostre montagne. Dove prende il sopravvento un’oggettività di abbandono e di montagna lasciata a se stessa.

Diciamo quindi che l’Altopiano di Asiago rappresenta il lato buono della medaglia, mentre il rovescio esprime verità diverse, addirittura opposte.
Questo sviluppo in alta quota si traduce ovviamente in benefici economici, come abbiamo visto, e in posti di lavoro, sia pure stagionali. Chi vuole fare il malgaro ad Asiago e dintorni può riuscirci, altrove è molto, molto più problematico.
Secondo distinguo. Nel documentario emerge una realtà giovanile interessante. Il cambio generazionale funziona, cioè il passaggio di conoscenze dai vecchi malgari ai figli avviene. Ragazze comprese. Un fatto rassicurante che garantisce futuro e possibilità. Resta però la via di accesso prioritaria alla professione. Al contrario, per un giovane entrare nel mondo dell’alpeggio dopo aver studiato, o mentre studia, non è facile. Tantomeno se vuole fare l’imprenditore. Non basta comprare 30 pecore, affittare una malga e cominciare. No, non funziona così. Ci vuole coraggio, tanto coraggio, magari anche un pizzico di incoscienza. Al riguardo, il tirocinio delle università deve trovare sbocchi più ampi e articolati.

I giovani, comunque, vanno indirizzati e incentivati in questo senso. L’agricoltura di montagna ha bisogno di loro. Senza però illuderli.
Come tutte le grandi passioni, la vita d’alpeggio impone prima di tutto fatica e sacrificio. Va interpretata “capindo la late”.
Una volta capita, può diventare irrinunciabile.

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Una replica a “Lavorare in malga può sollevare entusiasmo tra i giovani, ma la realtà è più complicata”

  1. Buona sera mi chiamo Nicola Bargagli.
    Mi sto dando da fare per lavorare lì con voi perché piace molto lavorare con voi. Ho anche il mio ragazzo che è
    Interessato ,vi lascio il mio numero di cellulare è 3452609561 , grazie aspetto sue notizie.

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