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Probabilmente era proprio il Vernengo il formaggio più ricco di materia grassa…

di Fernando Marzillo

Fino al 1984 il Parmigiano Reggiano, era unicamente quello prodotto tra il 1 aprile e l’11 Novembre: date che di fatto aprivano e chiudevano l’annata agraria. Al cosiddetto Maggengo o formaggio di testa seguiva l’agostano, mentre il formaggio tardivo o di coda chiudeva in autunno il periodo produttivo.

La stagionalità dei parti nelle stalle e l’alimentazione basata sul consumo di foraggio fresco ricco di carotenoidi (responsabili del colore della pasta nel formaggio), alternavano la produzione dell’illustre formaggio a quella del Vernengo ottenuto esclusivamente nei mesi invernali da vacche nutrite con abbondante fieno.

La prima differenza collegata ad un diverso tipo di alimentazione, si traduceva in prodotti con differenze cromatiche evidenti: al giallo paglierino carico del più quotato Parmigiano, si contrapponeva la colorazione pallida del Vernengo. Differenze importanti per il colpo d’occhio che offrivano al consumatore. Il giallo rimanda mentalmente, (ma erroneamente) ad un prodotto grasso e nutriente, quindi ricercato soprattutto da chi in passato anche a causa dei faticosi lavori manuali poteva chiudere la giornata in deficit energetico.

Probabilmente era proprio il Vernengo il formaggio più ricco di materia grassa perché derivato dal latte di animali alimentati con tanto fieno, alimento indispensabile per permettere al rumine un’attività fermentativa ottimale. Tuttavia un’alimentazione meno vincolante poteva essere causa di un peggioramento qualitativo del prodotto.

Ad onor del vero, alcuni difetti si potevano manifestare anche nel Parmigiano soprattutto primaverile come conseguenza del passaggio alimentare secco-fresco e dei successivi abbondanti consumi di erba che si spiegavano in produzioni di latte ipoacido, con tenore proteico ridotto e di difficile lavorazione. Condizioni che portavano nel formaggio stagionato alla comparsa della “lacrima di siero”. All’assaggio un formaggio fin troppo saporito e piccante: ai giorni nostri certamente poco gradito.

La miglior gestione degli allevamenti (attraverso la diffusione dei collari dotati di identificatore elettronico e la comparsa dei carri miscelatori), ha permesso di modificare ed uniformare i razionamenti alimentari mantenendoli costanti nel corso dell’anno con l’obiettivo (raggiunto) di ottenere latte e perciò formaggio con qualità eccellenti tutto l’anno.

Unico attore sacrificato alle nuove realtà produttive è il foraggio fresco con buona pace di chi difendeva le peculiarità cromatiche di un tempo e degli animali che lo gradivano assai.

Colore a parte mi piacerebbe trovare in vendita un Parmigiano prodotto con latte di bovine alimentate anche con foraggio fresco. Il Consorzio Vacche Rosse che caseifica il Parmigiano Reggiano con il latte dell’antica Razza Reggiana, tra i requisiti del disciplinare chiede l’impegno agli allevatori di impiegare quando possibile erba fresca.

E’ questo il segnale più evidente di un formaggio già profondamente artigianale e così davvero unico. E forse un messaggio che guarda al passato per ipotizzare un futuro più appetitoso e sostenibile.

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